Ancora una volta, quest'anno, provo l'effetto di questi
luoghi nello sfavillare di un giorno di maggio "normale", comunque
reduce dai soliti stravolgimenti climatici e in fin dei conti antropici ai
quali, purtroppo, bisognerà abituarsi per questioni di mera sopravvivenza nella
bruttura crescente del Kali Yuga. In questa valle appartata la primavera è
matura: il verde acido delle faggete in boccio abbraccia lo zampillare delle
acque sorgenti dagli anfratti scuri delle argilliti, acque tra le più
apprezzabili delle montagne lombarde, limpide e fredde dopo i precedenti giorni
di pioggia. Mentre cammino su una traccia di sentiero, da Vedeseta ad Avolasio,
raggiungo i dintorni della contrada di Salguggia (trovo i toponimi taleggini
molto affascinanti, come si vedrà poco oltre). Intorno si affacciano resti
diruti di stalle, casèl e fienili che sono apparizioni improvvise nel
fortunato abbandono in cui versano. I muri sono bianchi di pietre calcaree, i
tetti in lastre di pietra di Berbenno, invece, sono neri del fradiciume delle
piogge primaverili scese come una benedizione nei giorni scorsi. La loro
fortuna nella perdizione è non avere ancora perso il loro carattere a causa dell’arrivo
di nuove strade e conseguenti ristrutturazioni casuali. Sorge un significato da
questi luoghi che si manifesta, per me, sempre più in una sorta di orgoglio
distaccato che si nutre di fantasmi. In questo ha un ruolo simbolico di rilievo
la recente scomparsa di mio padre. Gli antenati senza volto e senza nome che
modellarono attraverso secoli di immense fatiche, spesso nella povertà, gli
spazi rurali del nostro vivere le montagne, assumono le sembianze di una razza
di giganti scomparsi, in grado di riapparire ormai solo nei sogni – e comunque
molto sporadicamente.
Ci sono valli che più di altre possiedono un potenziale
narrativo del loro irrecuperabile passato, e questo si materializza nelle loro
peculiarità paesaggistiche: nella bergamasca, ad esempio, in Val Taleggio la
presenza di formidabili acque calcaree e di vaste praterie d’altura concretizza
la secolare vocazione casearia; la Val San Martino sente lo spirito del vino,
delle selve di castagno e dell’arte dell’uccellagione con i suoi cadenti
roccoli di crinale, e così via. Il costruito
storico taleggino si manifesta anche al di là dei suoi manufatti: lo spirito di
quei giganti è nel vento che scendendo dai monti intorno sferza le alte erbe degli
antichi pascoli, nell’ombra dei boschi che drappeggia le argille trasudanti
acque, raccolte poi nelle pietre lavorate delle fontane e dei lavatoi nelle
contrade. Il silenzio sembra l’unico testimone rimasto di quei tempi remoti; le
popolazioni di queste valli non hanno mai avuto la necessità di narrarsi
durevolmente se non attraverso le loro opere materiali. Popoli dalla memoria
scritta quasi nulla; certo cantavano… ma la loro memoria è incisa nel paesaggio
stesso che per secoli abitarono, e poi abbandonarono. Se vi è traccia della
loro scrittura questa è materica e spesso labile, i cui mezzi sono diversi da
quelli di nostra abitudine – solo questo fatto reca suggestioni di una civiltà “altra”.
Vagando per monti e valli emergono i segni incisi nella pietra, senza tempo.
Croci confinarie oggi spesso nascoste dal folto dei boschi pionieri che vanno
riconquistando prati e pascoli; architravi in pietra e legno firmati da spettri
di genti senza volto; pietre di potere fittamente costellate da coppelle incise
chissà quando e per quale scopo; le minute, spesso eleganti scritture presenti
nelle cappellette votive di campagna, segni di una vicinanza al sacro
accostabile a quelli, più rari, fatti in carboni di legna all’interno di grotte
e ripari asciutti nel cuore dei boschi.
Il paesaggio nasconde anche un’altra scrittura
sempre sull’orlo dell’oblio, quella della micro-toponomastica locale, scrigno
di informazioni per gente più erudita di me. Io mi accontento del fascino che
certe designazioni portano con sé: una sorgente detta Bragoleggia, inghiottita
ormai dalla boscaglia nei pressi di una stalla in Valle Asinina; il passo
Baciamorti; la contrada di Avolasio; la sorgente incrostante della Mufolenta; i
piani d’Alben; la Scandolera, località un tempo molto probabilmente
caratterizzata dalla presenza di tetti in scandole – potrei andare avanti molto
a lungo, in quanto trovo la toponomastica molto rilassante. Tutti questi sono
dati e conoscenze bistrattate e rimosse spesso dai nostri stessi padri, la cui probabile
imminente scomparsa ci pone davanti al senso di quella che chiamiamo, nel bene
o nel male, “tradizione”, e di quello che questa ancora può darci in termini di
suggestioni e conoscenza.
Grazie Marco, queste tue avventure descritte così minuziosamente riescono a coinvolgere a tal punto che mi portano indietro nel tempo.
RispondiEliminaGrazie mille per la lettura.
Elimina