domenica 23 luglio 2023

Vagheggio a maggio in Val Taleggio

 

 

 
 
Ancora una volta, quest'anno, provo l'effetto di questi luoghi nello sfavillare di un giorno di maggio "normale", comunque reduce dai soliti stravolgimenti climatici e in fin dei conti antropici ai quali, purtroppo, bisognerà abituarsi per questioni di mera sopravvivenza nella bruttura crescente del Kali Yuga. In questa valle appartata la primavera è matura: il verde acido delle faggete in boccio abbraccia lo zampillare delle acque sorgenti dagli anfratti scuri delle argilliti, acque tra le più apprezzabili delle montagne lombarde, limpide e fredde dopo i precedenti giorni di pioggia. Mentre cammino su una traccia di sentiero, da Vedeseta ad Avolasio, raggiungo i dintorni della contrada di Salguggia (trovo i toponimi taleggini molto affascinanti, come si vedrà poco oltre). Intorno si affacciano resti diruti di stalle, casèl e fienili che sono apparizioni improvvise nel fortunato abbandono in cui versano. I muri sono bianchi di pietre calcaree, i tetti in lastre di pietra di Berbenno, invece, sono neri del fradiciume delle piogge primaverili scese come una benedizione nei giorni scorsi. La loro fortuna nella perdizione è non avere ancora perso il loro carattere a causa dell’arrivo di nuove strade e conseguenti ristrutturazioni casuali. Sorge un significato da questi luoghi che si manifesta, per me, sempre più in una sorta di orgoglio distaccato che si nutre di fantasmi. In questo ha un ruolo simbolico di rilievo la recente scomparsa di mio padre. Gli antenati senza volto e senza nome che modellarono attraverso secoli di immense fatiche, spesso nella povertà, gli spazi rurali del nostro vivere le montagne, assumono le sembianze di una razza di giganti scomparsi, in grado di riapparire ormai solo nei sogni – e comunque molto sporadicamente.
 
 Ci sono valli che più di altre possiedono un potenziale narrativo del loro irrecuperabile passato, e questo si materializza nelle loro peculiarità paesaggistiche: nella bergamasca, ad esempio, in Val Taleggio la presenza di formidabili acque calcaree e di vaste praterie d’altura concretizza la secolare vocazione casearia; la Val San Martino sente lo spirito del vino, delle selve di castagno e dell’arte dell’uccellagione con i suoi cadenti roccoli di crinale, e così via.  Il costruito storico taleggino si manifesta anche al di là dei suoi manufatti: lo spirito di quei giganti è nel vento che scendendo dai monti intorno sferza le alte erbe degli antichi pascoli, nell’ombra dei boschi che drappeggia le argille trasudanti acque, raccolte poi nelle pietre lavorate delle fontane e dei lavatoi nelle contrade. Il silenzio sembra l’unico testimone rimasto di quei tempi remoti; le popolazioni di queste valli non hanno mai avuto la necessità di narrarsi durevolmente se non attraverso le loro opere materiali. Popoli dalla memoria scritta quasi nulla; certo cantavano… ma la loro memoria è incisa nel paesaggio stesso che per secoli abitarono, e poi abbandonarono. Se vi è traccia della loro scrittura questa è materica e spesso labile, i cui mezzi sono diversi da quelli di nostra abitudine – solo questo fatto reca suggestioni di una civiltà “altra”. Vagando per monti e valli emergono i segni incisi nella pietra, senza tempo. Croci confinarie oggi spesso nascoste dal folto dei boschi pionieri che vanno riconquistando prati e pascoli; architravi in pietra e legno firmati da spettri di genti senza volto; pietre di potere fittamente costellate da coppelle incise chissà quando e per quale scopo; le minute, spesso eleganti scritture presenti nelle cappellette votive di campagna, segni di una vicinanza al sacro accostabile a quelli, più rari, fatti in carboni di legna all’interno di grotte e ripari asciutti nel cuore dei boschi.
 

 Il paesaggio nasconde anche un’altra scrittura sempre sull’orlo dell’oblio, quella della micro-toponomastica locale, scrigno di informazioni per gente più erudita di me. Io mi accontento del fascino che certe designazioni portano con sé: una sorgente detta Bragoleggia, inghiottita ormai dalla boscaglia nei pressi di una stalla in Valle Asinina; il passo Baciamorti; la contrada di Avolasio; la sorgente incrostante della Mufolenta; i piani d’Alben; la Scandolera, località un tempo molto probabilmente caratterizzata dalla presenza di tetti in scandole – potrei andare avanti molto a lungo, in quanto trovo la toponomastica molto rilassante. Tutti questi sono dati e conoscenze bistrattate e rimosse spesso dai nostri stessi padri, la cui probabile imminente scomparsa ci pone davanti al senso di quella che chiamiamo, nel bene o nel male, “tradizione”, e di quello che questa ancora può darci in termini di suggestioni e conoscenza.