Tra i diversi significati della
pratica, importante considerare anche quello dello sforzo continuo
che bisogna operare per cambiare dalla propria interiorità la
percezione che si ha dell'esistenza- o di quella che definiremmo
“realtà”. Creare un proprio cosmo che sia personale e
impersonale nel medesimo tempo, senza rischiare di sconfinare nel
cosiddetto “patologico” dovuto all'eccessiva oggettività da un
lato e soggettività dall'altro. Una serie di esercizi orientati in
questa direzione sono già stati concepiti (come ad esempio la
classica “pratica del rasoio” di Crowley), ma ovviamente in una
quotidianità come la nostra, eseguirli può essere quantomeno
difficoltoso; ma già il fatto di pensarci
di provare a farlo può essere comunque utile nell'ottica di una
frammentazione controllata della propria “personalità”. Più
nello specifico, si tratta di cercare di estirpare gradualmente non
la mente in sé, quanto lo “stile di pensiero” di cui si è
sostanziati, il quale struttura il reale intorno a noi nei modi che
gli sono propri per il contesto storico, sociale, culturale etc
dell'epoca attuale. Questo è dal mio punto di vista un lavoro
magico. Fare terra bruciata dell'ossessività intellettuale
contemporanea per una percezione diversa, forse più antica,
sicuramente più completa, del manifestato e non. In questo senso si
rende urgente e indispensabile la pratica costante, prima che giunga
l'inevitabile fossilizzazione dell'identità personale impostaci
dallo stile di pensiero contemporaneo, del quale siamo allo stesso
tempo creatori e soggetti passivi. Fuggire come la peste la
speculazione e le teorizzazioni (leggasi “masturbazioni”)
psicologiche; non porsi limitazioni nell'attraversare i deserti
abissali di questa era per rifondare la propria esperienza su questo
pianeta.