venerdì 26 ottobre 2018

Seguendo la Cacciamorta per i dossi della Mughera

E mi sovvien che un vecchio uccellatore
(e noi, fanciulli ancora, intorno intorno
ascoltavamo con pupille immote)
narrava del Diavolo la caccia
pei dossi della squallida Mughera.
Negra di pelo, orribile, con gli occhi 

fiammeggianti,, vedevasi una cagna
fuggire velocissima ululando:
e dietro ad essa un'affannosa muta
di segugi fantastici, e dovunque
voci d'inferno e strider di catene.
                               (B.Belotti, in "Val Brembana", poemetto, 1930)

L'imminente 31 Ottobre è di ispirazione per questa curiosa esplorazione lungo le alture a nord di Zogno. Lo spunto è dato anche da un bel testo di Vittorio Polli,* che accompagna il lettore alla scoperta dei luoghi patrii di don Antonio Rubbi (1693-1785), prevosto famoso per le sue guarigioni miracolose. Ci si muove quindi tra due temi di cultura popolare sotterranea dagli antichi rimandi e radici: la Caccia Selvaggia, che in una delle sue innumerevoli declinazioni alpine, e qui nella fattispecie orobica, diventa Cacciamorta, e la figura dai labili contorni "sciamanici" del prete guaritore. 


Luoghi certo vicini a un centro importante quale è e fu Zogno, ma proprio per questo enormemente ricchi di testimonianze antropiche nascoste all'ombra della giovane boscaglia che inesorabilmente divora quelli che furono i vecchi pascoli di queste alture. Partendo dalle Tre Fontane di Zogno, una piccola traccia nei pressi della chiesa ci permette di addentrarci tra le pendici della Mughera. Qui, tra vallecole e forre umide, si sale circondati dal muschio di vecchi muri a secco verso Pradonecco, contrada natale del prevosto. Forse questa era la via percorsa dal Rubbi quando andava a dir messa alla chiesa sottostante.

Guardiamo il precipizio che scende sopra le Tre Fontane, dove un viottolo nell'erba alta corre giù come un ragazzo svelto e saldo sulle gambe: un precipizio che è ancora la strada per andare alla chiesa delle Tre Fontane. In questa chiesa il prete Rubbi giovane ha incominciato a dir messa; e forse saliva a Padronecco ogni sera, dove l'orizzonte più vasto e l'aria più limpida, meglio nutrivano il suo animo predestinato.**

Padronecco e i suoi vasti (per quanto tempo ancora?) prati

 Da questo piccolo borgo diparte una mulattiera che porta in alto, verso altre lontane e solitarie contrade, fin su al Sonzogno, meta oggi prevista ma sfortunatamente non raggiunta. Prima però, è d'obbligo una deviazione verso la Mughera e il selvatichetto Pizzo di Zogno, là dove la Cacciamorta imperversava nelle notti invernali, ormai anche per noi imminenti. Seguendo un buon sentiero a nord dell'abitato, ci si addentra nella quintessenza delle prealpi dimenticate. Dall'altra parte della valle sta dimenticato un edificio, visibile nel bosco che si sta denudando in questo pomeriggio di fine Ottobre; la decisione di puntare ad esso è subconscia ma scontata, man mano che ci avviciniamo.



Una minuscola cava di "spolverino" lungo il sentiero. Questo è il colore originario del costruito di questi luoghi

I rovi sono fitti a tal punto che avvicinarsi a questa stalla è impensabile. Si nota come le pietre di cui sono costituiti gli edifici della zona siano irregolari, di qualità non eccelsa, tanto che in due occasioni, la prima in questa stalla appunto, dei grossi buchi presenti nelle pareti degli stessi sono stati "tappati" con semplici accumuli di sassi. La stalla non deve essere, in realtà, stata abbandonata da molto, in quanto il tetto è risistemato; ciò non toglie che il senso di desolazione è palpabile. Affascina il pensiero di segugi infernali al trotto in questi boschi scoscesi, la notte.

Stalla dal toponimo sconosciuto in Mughera

Proseguendo si scavalla un costone percorso dai pali dell'elettricità per portarsi a quello che scende dal Pizzo di Zogno (912 metri). Paurosi dirupi calcarei si spalancano a destra del costone e ospitano contorte (e franose) morfologie rocciose.

Nelle fauci calcaree della Mughera

Superato il Pizzo, uno splendido esempio di roccolo bergamasco (roccolo di Pice) si adagia su una passata. L'uccellagione era assai praticata in tutta la zona; appare inevitabile ripensare alle implicazioni narrative date dal contrasto apparente tra l'ambiente impervio di queste creste e l'esistenza nei pressi di queste di storiche strutture fisse per la caccia.

Roccolo di Pice


Dal roccolo di Pice una bella traccia scende, a volte a naso, verso Pernice, altra bella borgata di Zogno, ma prima di prenderla, si può tergiversare proseguendo ancora sul filo di costa verso la zona del Corno dell'Arco, giungendo in breve ad un altro fascinoso appostamento di caccia, racchiuso in un circolo di carpini e betulle che la morente luce autunnale rende quasi fantasmagorico.

Là dove passa la Cacciamorta

Torniamo sui nostri passi scendendo a Pernice. La bellezza e il carattere di queste contrade sono ben descritte dal Polli:

E una nuova chiara lezione che illustra la vita dei gruppi di case-famiglia sparse sui pendii, come le antiche tribù, con le loro vecchie dimore, le porte basse, i balconi di legno; i prati e i boschi intorno, limiti di una vita passata e di un non dimenticato modo di sostentarsi [...]
Lontani da queste costruzioni, altri gruppi di case-famiglia, vivono sulla loro terra con i nomi antichi e con le stesse sembianze dei progenitori: tutti hanno i loro soprannomi che sono rimasti  a distinguere i vari rami e le discendenze meglio dei nomi; il monte di Zogno è tutto organizzato in questo modo.***

Lo stemma dei Sonzogni a Pernice di Zogno

Dalla Pernice, la vecchia mulattiera riconduce al capoluogo traversando boschi e località che alla fine, tornati al cimitero di Zogno, permettono la comprensione dello stridente contrasto essenziale tra un modo di vivere che si è affermato nell'ultimo mezzo secolo, nei confronti di quello più antico di cui i nostri boschi e le nostre mulattiere sono intrisi. Di botto si è di nuovo nella contemporaneità delle villette modulari e della bruttura anestetizzante connaturata alla "città diffusa". Appena al di fuori di questa, nel buio immobile della notte invernale così come nella calura atroce del meriggio estivo, sulla schiena arsa della Mughera, i sussurri della memoria popolare non smettono oggi di raccontare leggende dal fondo della storia.

Stalla innominata tra Pernice e Pradonecco

*Polli Vittorio, La piccola patria, Il museo della valle editore, Bergamo 1972
**ibidem, p.34
***ibidem, p.33

martedì 28 agosto 2018

Una ascesa al Canto Alto di 120 anni fa

Chi mi conosce, per sua disgrazia, sa quanto mi sia caro lo smarrirsi consapevole nelle memorie morenti delle nostre Prealpi Orobiche, il divenirne cercatori, esploratori delle lontananze, dei silenziosi anfratti dove sempre vi è traccia antica, per chi la sa osservare; e non smetterò di affermare la nostra incompresa fortuna, quella di possedere sul territorio una potente rete di rimandi ad una cultura di giganti, quella rurale dei nostri vecchi, in procinto di chiudersi, vittima di sé stessa, come accade ad ogni ciclo di civiltà. Sul nulla che ci attende preferisco non dilungarmi.
Sapete anche del mio grande amore per la sentinella dei bergamaschi, il  Canto Alto detto anche Pizzidente ( http://umorismodaforca.blogspot.com/2013/04/canto-alto-notte-daprile.html ) ; esploratolo in lungo e in largo, ma mai abbastanza, il rileggere di luoghi che posso percorrere attraverso la memoria dell'esperienza diretta, nonostante la narrazione in questione si situi in un contesto temporale remoto (almeno nei termini della temporalità odierna), è qualcosa che non posso non condividere con i Followers of the High Peak (or High Mountain). Così come anche questo pezzo: https://www.youtube.com/watch?v=PcLW-0YZavI
Detto fatto: Alessandro Alebardi, uomo di ambiente ecclesiastico, descrive la salita al Canto dalla Cà del Lacc di Ponteranica Alta, nel 1898: credo che per i conoscitori si possa trattare di un piccolo resoconto gustoso.
Notare che la grande affinità dell'itinerario con quello odierno è resa possibile solo grazie al fatto che la zona è sotto la legislazione del Parco dei Colli; ma questa è un'altra complessa questione dai diversi risvolti.

[testo tratto da "Alessandro Alebardi, Sulle Prealpi Bergamasche, tip. Fagnani e Galeazzi, Bergamo, 1898.
vi si trovano interessanti descrizioni anche riguardo il Misma, il Podona, il Pertus, il Formico; https://archive.org/stream/sulleprealpiberg00aleb/sulleprealpiberg00aleb_djvu.txt ]



 
 Al Canto Alto (m. 1146) dal quale si ha 
magnifica ed estesa vista, tanto sulla pianura, 
che sui monti a tramontana, si può salire da 
Sorisole e dal Colle della Maresana. 

Da Sorisole, un sentiero mulattiero, però 
molto ripido, porta fino alla Cascina del Canto 
Alto (m. 939), dalla quale rimane poi a sa¬ 
lire il pascolo per giungere alla vetta (m. 1146). 

La salita da Sorisole ha però due incon¬ 
venienti : il primo, quello di doversi portare 
fino al paese, da Bergamo, e sono otto chi¬ 
lometri di strada piana (parlo per quelli, cui 
scopo della gita è muovere le gambe, non 
farsi portare in carrozza); poi, quello del 
sentiero, molto erto e che, attaccato alla roccia 
brulla ed esposto al sole di mattina e mez¬ 
zogiorno, riesce pesante per il calore, che si 
riceve dal sole, da una parte, e pel riverbero 
della roccia, dall’altra. A meno di salirlo di 
buon mattino, non è da consigliare, molto più 
che, arrivati alla Cascina, c’ è poi da salire 
tutta la punta a pascolo ed a pendenza assai 
pronunciata. 

Più bella e dilettevole ed assai comoda è 
la strada della Maresana, per molto tratto 
ombreggiata e che, mentre quella di Sorisole 
non ha che la vista di una valle, questa, di 
mano in mano che prosegue, ha variatissime 
vedute, prima sulla Valle Seriana, sulla pia¬ 
nura e sulla Valle di Sorisole, poi sulla val¬ 
letta di Olera, ed infine, arrivati all’altipiano 
della Braghizia (Braghessa), sulla bella valle 
di Poscante e lungo la Valle Brembana. 

Della strada di Sorisole, quando si è detto 
che parte dal paese e va al Canto Alto, è 
detto tutto, non essendovi altro sentiero che 
possa far sbagliare: di quella della Maresana 
è ben diversamente, essendovi molti sentieri 
e facilità di fuorviarsi in mezzo a tutte le 
colline che si devono girare. Però m’ inge¬ 
gnerò segnare il sentiero il più minutamente 
possibile, a rischio di noiose ripetizioni, per¬ 
chè ognuno, che voglia fare questa bellissima 
salita, non abbia a perdere tempo in andiri¬ 
vieni, chè in montagna, riesce più noioso ri¬ 
tornare sui proprii passi per aver sbagliato 
un sentiero, che fare doppia strada diretta e 
profittevole al proprio scopo. 

Saliamo dunque alla Maresana, sia seguendo
la strada della Zarda, sia direttamente lungo 
la Tremana e su pel Costone. 

Dalla chiesina della Maresana (m. 545) 
dobbiamo salire a quel roccolo lungo, che si 
vede sul colle verso mattina. Dalla chiesina, 
perciò, pigliamo a destra, verso mattina, ra¬ 
sentando il roccolo lì vicino. Poco avanti sono 
due sentieri, appena segnati però da specie 
di careggiate : 1’ uno più alto, l’altro più basso. 
Questo ultimo va a finire a quella casetta, 
che si vede giù basso nella rientranza del 
colle; da questa ad altra più avanti e risale 
infine, da una parte al piano del colle, e va, 
dall’altro, alle case del Castello, che sono ap¬ 
punto quelle case, che si vedono in gruppo 
sopra il promontorio alla nostra tramontana. 

L’altro sentiero, che tiene più alto, è quello 
da seguire, e va a terminare precisamente al 
roccolo lungo, in cima del colle, che abbiamo 
veduto a mattina appena allontanati di poco 
dalla chiesina della Maresana. 

Dove finisce il roccolo c’ è anche la così 
detta Tribulina dei Morti del 1630 (m. 679). 
Dietro la Tribulina c’ è il sentiero, sul ver¬ 
sante di mattina del colle, sempre piano, che 
mena alla Cà del lacc. Non si può sbagliare 
neppure volendo perchè il sentiero è uno solo. 

Prima di arrivare alla Cà del lacc, se si 
guarda un po’ più basso e più indietro della 
palazzina, si vede una roccia nera. Lì c’è un 
lontanino di acqua eccellente, al quale si 
discende per un sentieruolo, che parte dalla 
destra della Cà del lacc vicino al muro di 
cinta della casa, e dista meno di cinque mi¬ 
nuti. 

Se non si è provveduto acqua alla Chie- 
sina della Maresana, dove c’ è un pozzo di 
acqua piovana buonissima, di cui ora tiene 
la chiave il così detto Romito della Chiesa, 
qui è il luogo opportuno per provvedersene 
di eccellente, giacché, dopo, fino alla Bra- 
ghizia non se ne trova altra. 

Lo spuntino, dopo un bocconcino alla Ma¬ 
resana, è meglio farlo più avanti al roccolo 
dei quattro sentieri. 

Giunti, dunque, alla Cà del lacc , bella pa¬ 
lazzina con avanti un roccolo ed un minu¬ 
scolo laghetto fatto d’acqua piovana (m. 691) 
si prende la stradetta a sinistra del muro di 
cinta della casa, in piccola ascesa, che, poi, 
divenuta subito sentiero appena salita un po’ 
di roccia e continua a sinistra del colle Su- 
lino passando vicino ad un roccolo, fin che 
sbocca in un piccolo ripiano (m. 763), dal 
quale si vede, abbasso, a sinistra, tutto di¬ 
steso il paese di Sorisole. 

Qui vi sono due sentieri: l’uno che va 
avanti diritto: l’altro, che tende a sinistra e 
gira tutto il colle Luorida. E’ questo di si¬ 
nistra che si deve prendere. 

Poco più avanti il sentiero biforcasi di 
nuovo: l’uno scende a sinistra verso Sorisole: 
l’altro va diritto. Si continua con quest’ ultimo, 
che tende a salire a destra. Lungo tutto 
questo sentiero si ha sempre in vista, alla 
nostra sinistra, il paese di Sorisole. 

Girato il colle, si riesce sopra una piccola 
sella (m. 764) dalla quale, mentre si perde 
di vista Sorisole, si vede invece, a destra, la 
valle di Olera. Qui si imbocca subito il sen¬ 
tiero che va diritto sulla destra del colle e 
verso la Valle di Olera. Fatti pochi passi, si 
trovano due pozze, nelle quali si ferma l’acqua 
piovana e, poco più avanti, comparisce, giù 
a destra, nella valle, il paesello di Olera. Il 
sentiero continua finché giunge al punto ove 
sono due roccoli, 1’ uno a sinistra del sentiero, 
l’altro in salita, continuazione del primo: c'è 
anche una cisterna, che però ora non serve. 

Qui vi sono quattro sentieri. 

Il primo, a destra, che scende al paesello 
di Olera. 

Il secondo, che continua sul fianco destro 
del colle e si vede, in distanza passare, gi¬ 
rando a destra, sotto alcune roccie, nelle quali 
appare una buca (la grotta di Paci Padana ), 
mena alla sella, dalla quale si può scendere 
dall’altra parte a Poscante, ovvero, tenendo 
la costa di mezzogiorno del Monte Cavallo, 
andare a Monte di Nese. 

Il terzo, continuazione, verso il versante 
di sera, di quello pel quale siamo venuti, 
gira indietro dall’altra parte del colle e ri¬ 
torna a Sorisole. 
Il quarto, quello da seguire, sale in mezzo 
alla continuazione del roccolo, poi, in mezzo a 
roccie. ad altro roccolo, che si attraversa 
passando a sinistra del casello. 

Oltrepassato il roccolo, il sentiero gira il 
collino sul suo fianco destro. Dall’altra parte 
di questo collino, quasi in cima, c’è una ca¬ 
setta, e vicino a questa una piccola sorgente. 

Il sentiero, da qui, continua salendo fino 
ad una piccola sella, poi ad un’altra e, gi¬ 
rando ancora a destra il collino, riesce ad 
una terza piccola sella. Notisi che, in tutta 
la lunghezza del sentiero delle selle, si vede 
sempre, a sinistra, di là della valle, il sentiero 
che da Sorisole, lungo il fianco del monte 
brullo, sale al Canto Alto. 

Arrivati all’ultima sella, ci sarebbe un sen¬ 
tiero, che, scendendo a sinistra e rasentando 
tutte le roccie a picco del Canto Alto, mena 
ai piedi del prato, dal quale si sale poi alla 
cascina e quindi alla cima del monte : ma è 
poco praticabile prima di tutto, poi, terminando 
in fondo al prato, lascia assai più salita da 
fare, di quella che abbisogni tenendo il sen¬ 
tiero del costone, che è quello che stiamo se¬ 
guendo. 

Saliamo, adunque, per le roccie lungo il 
fianco del monte, ed in poco tempo arriviamo 
alla sella, sulla quale alla nostra sinistra, si 
trova un bellissimo sentiero piano, che ci mena 
alla Cascina Braghizia (Braghessa) m. 1032. 
Questa casetta ha una cisterna buonissima. 

Dalla Braghizia al Canto Alto non occor¬ 
rono più di venti minuti, lasciando quel sen¬ 
tiero che, rasentando una piccola siepe, si 
vede che va a girare il monte, e salendo in¬ 
vece direttamente la costa. 

Per quanto si stia sul ciglio della costa e 
si veda alla nostra sinistra le roccie del monte 
scendere a picco, non c’è però alcun pericolo, 
chè, volendo, si può anche tenersi alquanto 
più basso nel versante di destra. 

Così si sale alla punta (m. 1146) la quale 
ha un circuito piano di una trentina di metri, 
e da dove la vista può spaziare tutt’ intorno 
non arrestata da alcun altro monte vicino più 
alto, essendo questo affatto isolato.

giovedì 9 agosto 2018

Sulla presunta "Madonna Nera" di Scasletto



Scasletto (Valtorta, BG) è una piccola contrada alpina preservata ancora, ad oggi, dall'arrivo della strada e nonostante ciò ancora presumibilmente abitata, almeno saltuariamente - questo è ciò che abbiamo potuto dedurre dalla nostra ultima recente visita, in piena estate. Il fascino di questo grumo di vecchie case di pietra, addossate alla costa del monte, è quello della lontananza irrimediabile di un tempo vicino ma perduto, del suono della fontana ai margini del bosco, acqua che scorre ormai inascoltata nei meriggi infuocati d'agosto così come nelle cieche notti immobili dell'inverno montano. La nostra visita è stata motivata anche e soprattutto dalla lettura di un recente articolo apparso sull'ultimo dei "quaderni brembani" *,  che oltre ad averci permesso di scoprire un altro angolo di storia nascosta delle nostre Orobie, cosa per cui ringraziamo infinitamente l'autore, ha messo in chiaro, nero su bianco, l'origine iconografica delle (poche) Madonne Nere brembane, riconducibili fondamentalmente al motivo della Santa Casa di Loreto. A Scasletto si trova per l'appunto un curioso affresco, ricondotto forse troppo entusiasticamente dall'autore al medesimo tema della Madonna Nera. Ci permettiamo di fare quindi alcune osservazioni a proposito di questa ipotesi che, a fronte di un esame diretto, non appare più sostenibile. Quelle qui di seguito sono notate del resto dall'autore stesso, in qualche misura:
- La composizione figurativa non prevede evidentemente l'incarnato scuro per la sola figura della Vergine: tutti i personaggi presenti presentano infatti la medesima tonalità, la quale è presente anche nell'aureola e nel cielo raffigurati. Oltre all'ipotesi di rimaneggiamenti posteriori, non sarebbe da escludere quella di un deterioramento dell'impasto pittorico utilizzato per l'affresco.
- L'iconografia della Madonna di Scasletto non rispecchia quella canonica della Madonna di Loreto. La rappresentazione appare più conforme a schemi compositivi più tradizionali.
  L'autore dell'articolo prosegue notando la presenza di una "bizzarra appendice", simile a una coda serpentiforme, fuoriuscire dal posteriore del Gesù Bambino in braccio a sua madre. Questa viene ricondotta poi alle tentazioni occorse al santo Antonio abate, che del resto ritroviamo a più riprese nella storia culturale e folklorica della valle**. Tralasciando il fatto della probabile unicità di una rappresentazione del genere, mai riscontrata in altri ambiti (ma questa può essere espressione di ignoranza da parte dello scrivente), ma comunque in ogni caso assai coraggiosa, oltre che oltraggiosa, pensiamo che si tratti fondamentalmente di una svista: l'aver scambiato per coda un semplice motivo del panneggio del vestito - assai rovinato, del resto, dall'usura del tempo. Parrebbe inoltre, a uno sguardo più approfondito, che ai piedi della Madonna vi fossero uno o più putti; nell'insieme, la teoria di un "cristo con la coda" apparirebbe quantomeno grottesca.
Con ciò nulla si toglie all'interesse generale per l'argomento "scottante" delle Madonne Nere, ben rappresentate anche nella storia artistica della valle Brembana, e oggetto di catalogazione nell'articolo in questione, di cui invitiamo quindi alla lettura per coloro che ne fossero interessati.

* http://www.valbrembanaweb.it/centroculturale/QUADERNI-BREMBANI-16.pdf
**Vedi il ciclo di affreschi nell'oratorio/ chiesa della Torre di Valtorta, e le figure ricorrenti del carnevale di Valtorta.

lunedì 9 luglio 2018


Sempre alla ricerca di leggi fisiologiche universali - ciò non permette di sfuggire alle stesse, comunque. Ogni suono echeggia nella notte fino a perdere di consistenza, e svanire; non rimane che la memoria, reale o meno, non importa. Ogni esistenza umana è un'incarnazione continua e senza fine - e già un flautare malinconico si dissolve tra il ruscello e i castagni.
Abbiamo brindato ed evocato visioni, e nella luce trasognata dell'aurora l'evirato ammutolito giace addormentato, forse in attesa di un'ebbrezza perpetua e massacrante. Più oltre gli astanti e i beati poveri di spirito giubilano ancora dinanzi a belve assopite e sconcertate dal  riflusso delle orge notturne. Inoffensive e crudeli, i ceppi alle zampe, sussurrano oscurità all'eremita lontano - egli è impaurito dal loro ruggito, la lanterna spenta per rendersi cieco ai loro occhi. E il giovane Dio - signore estatico, zoccoli d'acciaio - è partito già, è nascosto nel folto.
Canti, risa e primavere sono remoti, incomprensibili relitti densi di misteri.

giovedì 5 luglio 2018

Appunti runici II - Potenzialità psichiche dell'alfabeto leponzio

Carona loc.Torbiere (monte Aga) luogo di ritrovamento di diverse incisioni


[z] [p] [l]

Ogni sistema divinatorio deve rispondere, per essere tale, a una necessità di rappresentazione dell'universo, sviluppata secondo le diverse estrinsecazioni del sistema stesso a guisa di un vero e proprio linguaggio universale, preciso ma fluido e inappellabile. E' in realtà la divinazione una branca secondaria dell'espressione della Volontà; quello che conta in questa sede è la sua essenza di Alfabeto delle possibilità, il quale si modella secondo la sua lettura o, a un livello più profondo, nella sua enunciazione.
Sistemi antichi o più recenti basano infatti il loro potere sull'arte della Parola; dalla Cabala alla magia Enochiana all'Alfabeto del Desiderio le forze si giocano allo stesso modo.
In quest'ottica, qui di seguito si trovano i risultati pratici di un lavoro svolto nell'ottica dell'approfondimento delle potenzialità psichiche dell'alfabeto leponzio (detto anche di Lugano), in correlazione indiretta con quello runico più conosciuto (elder futhark*). La scelta del Leponzio riflette gli studi condotti negli ultimi anni riguardanti la storia etnografica e folclorìstica nell'ambito delle Alpi Orobie, con un occhio di riguardo ai recenti ritrovamenti di iscrizioni e raffigurazioni di ambito propiziatorio e forse cultuale sulle rocce delle alti valli brembane; è possibile reperire materiale storicamente più approfondito a proposito nei meandri del web e in diverse pubblicazioni, per cui non mi dilungherò oltre, ora.
I glifi leponzi presi in considerazione sono tre, e le possibili, vaporose influenze mentali dovute alla conoscenza delle rune germaniche sono servite, più che altro, come "basamento concettuale" dal quale (non**) farsi influenzare una volta intrapreso il rituale, il quale vede come simbologia di apertura l'utilizzo indiscriminato della runa Naud.
Il primo di essi (a sinistra nell'immagine squisitamente microsoftiana qui proposta) rappresenta il fonema [z], che si ritroverebbe, nel futhark, in Algiz, runa di eccelsa potenza. Nella pratica il glifo si è rivelato archetipicamente simile a un ponte, o sentiero di passaggio tra stati dell'essere differenti. Sembrerebbe legato alla simbologia dell'Irminsul, asse del mondo e albero cosmico, pilastro universale. Il risultato principale si è avuto nella grande lucidità onirica ottenuta nelle notti coincidenti con le operazioni svolte; il simbolo in sè non è stato però sufficiente, al livello attuale, ad aprire "cancelli" ulteriori verso stati più sottili e meno condizionati, nonostante la presenza, nei sogni, di molti segni e luoghi "forti" e piuttosto indipendenti dalla sfera mentale dello scrivente.
Altro fattore interessante occorso durante la pratica è stata la trasformazione di energie più mondane da uno stato di latente pigrizia ad uno di grande attività costruttiva, risultato già ottenuto in precedenza lavorando con Algiz.
Volendo proseguire seguendo la linea runica germanica (Aettir), ho ritenuto idoneo retrocedere verso [p], piuttosto che avanzare in [s], data l'uguaglianza grafica tra quest'ultima runa (Sol) e il corrispettivo glifo leponzio. Fin da subito si sono palesate immagini fortemente legate alla sfera lunare: distese di alberi piegati da venti smisurati; grotte e spelonche. La pratica ha svelato senza alcuna reticenza il legame tra questo glifo e la figura esoterica della Donna. Questo glifo - il quale rappresenta sia [p] che [b], che ritroviamo quali rune effettivamente "femminili" - catalizza a mio avviso le energie serpentine di Shakti attraverso la comprensione sottile dell'elemento femminile.
Questo si è palesato in particolare, durante la meditazione, quale enorme mare in burrasca appena sotto il Muladhara chakra. Esso, nella mia esperienza, incorpora Bjarka e Pertho, rune del mondo femminile profondo, fisico e spirituale. Vi possiamo trovare Freja nelle sue declinazioni luminose e oscure, ma anche Lilith, le Parche e figure affini. Risveglia le energie sessuali tumultuose; ma allo stesso tempo simboleggia la protezione della Madre (Madonna) - ma solo nel senso della fertilità magica. Favorisce sogni simbolici di buon impatto.

Poeninus, il dio delle vette (Carona CMS1)

Arrivato a questo punto,ho cercato di penetrare più a fondo il mistero della magia femminile dischiusosi con [p], andando a lavorare su [l], glifo speculare al precedente e "corrispondente" al germanico Lagu. Il risultato pare essere stato una manifestazione della figura più propriamente "mondana" della Donna in quanto essere nobile, emersa più volte durante la pratica; si avvicina a questa impressione lo schema dell'amor cortese, della donna quale essere spirituale nobile a sé nei confronti dell'uomo, da avvicinare con rispetto e devozione. I due ultimi glifi andrebbero quindi correlati, a mio avviso, al mondo lunare di Vanaheimr; [p] assume in sé l'arcano della Sacerdotessa, [l] quello più "secolare" dell'Imperatrice.
L'alfabeto leponzio preso qui in esame è solo un esempio di come sia possibile, a livello di pratica psichica, utilizzare l'infinita varietà offerta dalla storia delle simbologie per ottenere visioni e intuizioni profonde non altrimenti assimilabili con il solo studio teorico delle stesse. Proseguirò con lo studio degli altri segni nel corso del prossimo periodo, per confermare o meno un'effettiva validità spirituale e/o una circolarità concettuale del sistema - compito in realtà che non pretende naturalmente di avere efficacia universale, ma solo di poter essere d'aiuto nella creazione di una serie personale di sigilli e simboli dai molteplici utilizzi.

* (in realtà il metodo di lettura e ordinamento degli Aettir da me solitamente utilizzato è quello più controverso dell'Uthark)
**(grazie alle preliminari procedure di soppressione dell' Ego).



sabato 2 giugno 2018

                                                           Fior d'Aquilegia
                                                           Scuro sortilegio
                                                           Dondolando invochi
                                                           Viola atri fuochi.

venerdì 12 gennaio 2018

Apparizioni e dicerie di Torre de' Busi e dintorni - una raccolta [in aggiornamento]


Il grembo della leggenda sono le impressioni del profondo inverno

I più remoti, eppur vicini, anfratti delle valli avvolti da trame denudate d'edera e spini, ricordi morti come fossili ghiacciati sulle tracce dei sentieri sepolti: segreti di cacciatori defunti, queste tracce nere di selvaggina sulla neve, nel rincorrere la preda, nel farsi preda, cacciati a loro volta dalla crudeltà silenziosa del freddo rigido e opaco, foriero di fame.
Nel gelo e nel silenzio della notte di Gennaio, poche erano le luci che occhieggiavano dalle finestre delle cascine sulle vallate buie tutt'intorno. Era il momento del ritrovo delle famiglie nelle stalle o dinanzi ai focolari, quando la solitudine alpestre rinnovava i sortilegi delle antiche storie. I vecchi narravano del bosco e le sue ombre, delle bocche spalancate delle caverne dove le volpi si rintanano, sul fondo più buio e scosceso delle valli, di bestie favellanti linguaggi profetici nella notte di san Silvestro. Storie disegnate sulle rocce calcaree delle nostre terre dal sangue versato dei clan, sostanza della visione evocante immagini brulicanti che dai primordi si riproducono nelle notti di neve.
Queste valli sono come libri, le cui pagine richiuse su scaffali polverosi sono rami, tronchi e rampicanti intricati e invadenti - leggere è percorrere questi monti rinselvatichiti lungo vecchie tracce.
Inverno feroce, luce tagliente, metti a nudo con artigli di ghiaccio ogni versante, scoprendonde i segreti: stalle, cascine, sentieri e corni di roccia. Esangue cantastorie, rompi la monotonia delle tue lunghe notti raccontando storie oscure, cantando vecchi canti, trascinando nello stupore e nel timore gli infanti e non solo, evocando l'ombra che scurisce i confini di luoghi familiari.

Qui di seguito, un tentativo di raccolta sintetica di leggende e dicerie del territorio di Torre de' Busi e immediati dintorni. (loc. sta per "località" , fraz. sta per "frazione").

- monte s. Margherita, versante NO: teatro di avvistamenti della famosa Cacciamorta, sarabanda infernale dalla storia millenaria; a seconda delle versioni, si presentano tre cagnolini o un cane a tre teste.
Per le varie frazioni si aggirava anche la "bùna càscia": si sentivano cani ululare, e si diceva che lasciassero pezzi di carne appesi agli alberi.
A Colle di Sogno la casàda dol Diaòl: latrati e ringhiare di cani imperversavano per l'alta frazione di Carenno e dintorni; un testimone, ad oggi vivente, si sarebbe ritrovato una notte in camera da letto la casàda, terrorizzandolo alquanto.
Nei pressi di Assa la cacciamorta scendeva dal crinale del Pertus.
- castello Casarola, loc. : vi si narra dello spettro di un uomo in catene, morto di sete e fame.
- castello Casarola, loc. : vi si narra dello spettro di una creatura dalle sembianze caprine, compagna dell'uomo di cui sopra.
- castello Casarola, loc. : vi era un pozzo detto "del diavolo", abbattuto "accidentalmente" da una ruspa, con la delicatezza tipica dei cementificatori lombardi.
- castello di Casarola, loc. : vi si narra di un conte morto in qualche modo in un gabinetto, strangolato o forse murato vivo (quest'ultima ipotesi potrebbe riferirsi però all'uomo in catene, di cui sopra).
- castello di Casarola, loc. : la padrona nobile del castello, detta Résinèla, venne murata viva al suo interno a causa della sua cattiveria. La notte se ne sentono ancora i lamenti.
- Incasone, loc. : è stato avvistato una sorta di lumino rosso percorrere ripetutamente il prato in paurosa pendenza  di questa località.
- Fornace, presso via Fontana: si dice che vi si nascose Mussolini nel '44, e che vi fosse una zecca (conio di monete) nascosta.
- Sonne: zona di acque meandriformi lungo la provinciale che porta a Torre, una diceria piuttosto pazzesca narra ivi dello sbarco degli americani durante la seconda guerra mondiale, a bordo di un piroscafo (sic)
- val Fosca: sede di molteplici avvistamenti del famigerato Bés Gatobe, la biscia-gatto dallo sguardo omicida, chimera alpina conosciuta con svariati nomi da qui all'Austria e oltre. "Stà tent ad andà in dì bòsc che ghe in gìr ol Gatobe" ; "Ghe ne sò nel Broghèt" . Pare fosse in grado anche di saltare i corsi d'acqua.
- val Fosca: luogo di inumazione del "Baet", uomo assai malvagio in vita, nel suo fondo più inaccessibile, laddove non giunge il suono delle campane. In altra versione, a mio avviso più affidabile, il "baet" ("baita" in bergamasco) è nome del luogo dove viene seppelito un prete assai malvagio, detto "mutù", da tre uomini, che hanno l'ordine di sodomita memoria di non voltarsi una volta compiuto il loro dovere. Uno di essi (o forse tutti) trasgredisce la direttiva e muore sul colpo.
- val Fosca : vi venivano in generale esiliate le anime malvagie,non accettate al camposanto, si sconsigliava di passarvi la notte o durante i temporali, poiché vi si sentivano spettri e alberi che si spezzavano ma che il giorno dopo, senza alcuna spiegazione, erano integri al loro posto.
- cà Brago, loc : c'era una non meglio identificata casa infestata dal fantasma di un suicida.
- col di Fopa, loc. : la baita del Màgher, luogo di passaggio lungo un'erta mulattiera, era teatro di bizzarre dicerie. Bisognava , secondo alcuni, lasciarli del cibo ad ogni passaggio, altrimenti si veniva maledetti; secondo altri, era il Màgher stesso a offrire un mestolo di minestra ai viandanti; secondo altri ancora il Màgher offriva del vino ai già alticci passanti reduci dalle notti d'osteria - i quali avevano quindi il pretesto per tornare a casa completamente in palla, probabilmente.
- Valcava, fraz. : vi si avvistava la donna del Gioco al valico.
- Maglio, presso Regurida: negli anni '50 del XX secolo è stata avvistata la donna del Gioco sul ponticello che porta alla mulattiera in una notte estiva. Il fatto causò gran scalpore.
La donna del Gioco è anche visibile, di notte, troneggiare su tutta la vallata, con una gamba sul monte s.Margherita e una sul monte Tesoro. Da altri è chiamata col nome più brianzolo "Giubiana".
- ponte della Lisegna, presso Tegiola : presso la grotta al di sopra della strada, si dice che prima della costruzione della stessa, durante la seconda guerra mondiale, vi trovassero riparo bande di giovani che non volevano essere arruolati. Sempre nella stessa grotta, alla fine della guerra, sarebbe stato ritrovato un cadavere di incerta origine.
- cà Macone, loc. presso Sogno : la lacca, o pozzo verticale situata nei pressi, si dice fosse un tempo talmente profonda da portare alla sorgente dell'Ovrena, diverse centinaia di metri più a valle. Questo prima di essere completamente riempita di immondizia, purtroppo. Un'altra diceria riguarda un figlio non voluto che sarebbe stato gettato dentro la notte stessa del parto; secondo altri il neonato sarebbe invece stato lasciato nella zona della sella verso Carenno.
- Sogno, fraz. : una certa casa, contraddistinta dalla particolare foggia delle finestre, era famoso luogo di spettri. I ripidi castagneti e gli erti sentieri della zona pare siano in generale piuttosto "frequentati"...
- Colle di Sogno (Carenno) : lungo la mulattiera che saliva al colle da Carenno, si trova a un certo punto una cappelletta nei cui dintorni dimoravano i "capelloni", strani spettri dai lunghi capelli incontrati più volte dagli abitanti del luogo che si attardavano la sera. La zona è luogo di altri incontri bizzarri: spettri di vecchie che ramazzano e catene che risuonano.
- Colle di Sogno (Carenno) : lungo la strada che porta al borgo, in prossimità dei grandi faggi circostanti, si avvertivano la notte strane presenze invisibili, con sospiri, passi e strepiti. Sempre in questa zona, le coppie che si appartavano in automobile venivano spesso disturbate da strane e innaturali vibrazioni che scuotevano l'abitacolo.
- Il monte Brughetto presenta, sul versante che si circosrcive arrivando al Colle di Sogno, grandi muri a secco, che diceria popolare diceva fossero resti di un convento di frati - forse di rimando a quello, realmente esistente, del Pertus più a settentrione. In realtà si tratta delle strutture di supporto alla cava di pietra presente in loco, e utilizzata per la costruzione della parrocchiale di Carenno agli inizi del '900.
- monte Tesoro : i suoi soleggiati versanti prativi che dominano la vallata della Sonna ospitano diverse cavità carsiche, in una delle quali si dice abitasse in pianta stabile un personaggio soprannominato "Lupo". Di storie di persone che abitano grotte poste in luoghi più o meno remoti è pieno tutto l'arco alpino. Rimembranze dell'uomo delle selve?
- monte Tesoro : era luogo d'elezione della paurosa cavra Besula (o Sbrésola, Sbrégiola) altra tipica creatura infernale alpina.
- strada provinciale che porta a Colle di Sogno : nei pressi di Barilette, prima della valletta della Chigarolla, sulla sinistra si alza la vecchia mulattiera che porta a Piea / San Marco. La prima minuscola stalletta che vi si incontra era abitata dal "Carunfa", che porgeva ai viandanti un mestolo di minestra (vedi sopra, il Màgher al col di Fòpa).
- Mòrcc di càmp, chiesetta dei Morti all'imbocco della valle della Sonna : era luogo di avvistamento di vere e proprie processioni di spettri, forse i morti del paese. Uno di questi poteva porgere al viandante una candela, che una volta scomparsa la processione, diveniva un osso (in altri contesti orobici, vedi per es. Ornica, un serpente).
- Lacca di Fò, alla cascina omonima : si dice fosse talmente profonda da arrivare all'Adda.
- Nata di Barilette , loc. : si dice fosse talmente profonda da arrivare al mare.
- Cà Martinone , loc. : sede della leggenda dei gatti parlanti.
- Cà Bianca, loc. presso San Marco (Piea) : avvistamenti di uno spettro.
- òl brusàtt : uomo blasfemo e malvagio, avendo distrutto in un impeto d'ira bestemmiante un crocefisso, venne trasportato dalla chiesetta di s.Michele al cimitero avvolto nelle fiamme.
- un altro lumino vagante si vedeva di notte muoversi nella valle della Sonna, più o meno tra le contrade di Urida e Introbina.
-San Gottardo : era presente lo "sperèt malègn", che si aggirava la sera sotto i portici delle cascine.
-Valcava: all'Alpino, vecchio albergo, si diceva che si sentissero gli spiriti.

[La lista è in aggiornamento].
seguirà a breve, spero, una raccolta più articolata riguardante racconti e leggende della valle.