La luce folgora e acceca gli alberi in fiore nei boschi perduti dell’alta Brianza. Nel meriggio assonnato di un giorno d’aprile vado vagando per la Porchera d’Olgiate, con la sua torre in rovina, verso i colli soprastanti. Raggiungo Mondonico per i paesaggi desolati della bulimia edilizia; una volta giunto all’interno del Parco del Curone, noto che qualcosa si è salvato. Mondonico, dal grande hortus conclusus cintato in pietra, ricorda ancora le delizie delle frasche e delle ville lombarde di almeno un secolo fa. Alcune vie selciate conducono ancora da lì al colle, e mi dirigo fantasticando verso Monastirolo, contrada che so essere ancora vergine di strade. Una stretta scalinata e poi una mulattiera preservata dall’invadenza dei rovi, fatte di arenarie di collina a grana fine, di un colore quasi da vetro di damigiana, accompagnano il passo insieme al chiacchiericcio degli uccelli e allo sgocciolio delle lingue nerastre dei rivi nelle vallecole via via attraversate. È quel momento della primavera in cui ci si muove in questi luoghi come in cerca di una rivelazione; il non ancora manifesto prelude la sua comparsa nel respiro diafano e angosciante della luce che si fa assoluta, conducendo infine al solstizio.
Dopo un crocevia raccolto tra le pieghe argillose del colle, un’ombra verde e umida anticipa infine l’accrocchio sfasciato di case meschine che è ancora Monastirolo. Sul molle orlo del monte, osservo lo straniamento di un abitato così vicino alla metropoli sottostante ma rimasto fermo al suo abbandono. Volevano sì portarci una strada: la ruspa adibita allo scopo giace in letargo in un ripostiglio fitto di rovi dal quale traspaiono le sue lamiere giallo industriale. Non mi spiego questa fortuna. La contrada intanto è cullata dal sonno verde di decomposizione dei boschi nemorali, ombrosi e umidi, che la circondano. Le sue pietre squadrate di arenaria, gli infissi e gli intonaci polverizzati sentono l’abbraccio vegetale circostante. Le case antiche si stringono tra loro in strettoie ricavate dalla costa collinare: gli spiritelli vaganti vi si intrufolano tra un soffio buio di cantina e una lama di luce arroventata dal sole. Una sola fontana, timida sulla piazzucola tappezzata di licheni, serviva la contrada. Una vite antica distende i suoi tralci ritorti sui ballatoi di legno roso di una casa abbandonata che si affaccia a pochi metri dalla piazza. È forse una discendente della rinomata malvasia che qui veniva prodotta prima della funesta filossera?
Qui mi ristoro brevemente, sento delle voci, vedo un paio di persone, i soli abitanti ancora presenti, per loro ascetica scelta. Li comprendo alla perfezione. Lasciandomi infine alle spalle quest’angolo di silenzi collinari, di smeraldini ricordi della Brianza che fu, mi inoltro nelle selve abbandonate a solatio, ricolme ora di luce. Muovo appena un passo oltre e avverto il demone meridiano tutt’intorno – ogni albero, ogni germoglio vibra adesso nell’ora assoluta. Sono forse posseduto? Sono il sogno dei vagabondi dei boschi, movimento fermo come vento, zefiro mite e vivificante tra i virgulti e le tane dei tassi. Su questi colli ammantati di verde velluto i giorni si rincorrono tra le pieghe dell’eternità. “Il salmo di terza compieta cita il demonio della sesta, del mezzogiorno, come il più importuno e pericoloso di tutti […] l’ozio e l’umidore selvatico, il pericolo del rilassamento dei nervi, il rischio delle vesti discinte, tutta l’abominazione della nuvolaglia grigia e dei cieli azzurri! Le ore in cui l’aria è afosa mettono in fregola, sommuovono lo sciame urlante degli angeli cattivi”. Ben vengano! Travolto dalla furia dei fauni a mezzogiorno, cammino invisibile sulla via del ritorno, nel rigurgito arioso dei pollini e delle brezze incostanti nel bosco ancora nudo. Sono ancora una volta, definitivamente, un vizioso della solitudine.