sabato 6 aprile 2024

So Early in the Appennini's Spring

Una distesa di dolcezze collinari che invitano a cammini senza fine, a sonni e teneri abbandoni distesi sui vasti prati d’appennino. Si palesa ancora il mistero di questa stagione, il cui nome è Resurrezione dall’effimero e dalla morte; con essa risorgono squilibri e angosce dovute al trionfo crescente e implacabile della luce, che crudele mette a nudo ogni cosa. Amo la penombra, ma puntando a Sud gradualmente ogni tumulto mentale viene riportato all’orbita fissa dello scrivente che è quella dell’essere vago e profondo, serio e scanzonato, piuttosto martoriato, vagabondo di mete irreali. Gli alti cieli appenninici sono diversi da quelli più serrati delle Alpi, ai quali sono avvezzo. In essi si specchia il vicino Mediterraneo, le cui acque antiche furono conoscitrici dell’uomo, che a sua volta lo popolò dei suoi strani dei.
 
Calanchi a nudo.
 
 Come il mare, quelle terre richiamano alla libertà di rotte tracciate nell’ignoto. Un ignoto comunque benevolo, forse senza meta: sopravvivenze di una natura potente e maestosa, ma ordinata, quasi schiva, poiché frutto di un addomesticamento millenario da parte dell’uomo che fu. Tutt’intorno domina la progenie vegetale e proliferante dei verdi in mille gradazioni e tonalità, figli di una primavera precoce, qua e là illuminati da pallide occhiate di sole che si alternano nel silenzio dell’orizzonte, e sporadiche macchie scintillanti fioriture di cadmio e bianco spento di agli e brassicacee. Più in basso, sulle linee ordinate dei coltivi, il rosa carico e minuzioso dei fiori di pesco.
 
Un invito al cammino.


Geometrie vive.
 
Le terre brune e già riarse dei campi a riposo racchiudono a volte visioni sorprendenti di incolti fioriti che stupiscono per la semplice bellezza che offrono. Nei pressi sperduti di questi, nelle notti di luna, nascosti dalle tenebre d’argento, al suono del solo vento che zufola dalle vette lontane, è facile immaginare danze e giochi dei nostri antichi vicini, fate, mazzamorelli e quant’altro, qui ancora avvistati fino a non molto tempo fa. Poi sono d’un tratto come scomparsi, rintanatisi forse nei buchi e nelle voragini gessose così simili alle aperture dei regni sotterranei dei tumuli e delle colline di smeraldo del piccolo popolo d’Irlanda e di Scozia. In attesa di cosa?
 
https://www.focus.it/ambiente/ecologia/strani-avvistamenti-in-un-fascicolo-della-forestale-dedicato-a-gnomi-e-fate-dei-boschi   

Gnomino dde'bbosco.
 
 Non mi è mai interessata la potenza della natura selvaggia fine a sé stessa: di questa l’universo ne è pieno da scoppiare, raffreddandosi al contempo. Conta quello che la nostra specie è riuscita a costruire nel corso inesorabile dei secoli e dei millenni e delle milioni di morti e lacrime, e accoppiamenti voluti o meno nel fondo nero dei ricordi che non ci appartengono, contano le conoscenze ripudiate che portavano la bellezza nel quotidiano e non l’odio e l’alienazione tipici della macchina. Tornando all’appennino tosco-emiliano, all’improvviso un paese di torrette, scalinate e castelli si erge su cristalli di gesso e su vene d’acque termali. Sembra non vi siano abitanti, ma solo moltitudini di anziani alla ricerca di scampoli di una salute perduta nello stabilimento miracolosamente ancora attivo, e simile a un brutto ospedale. 
 
Brisighella. 

 
Abbandono, ancora.
 
La fortuna attuale di questi luoghi è un’appendice di quella ottocentesca dello sfruttamento delle cave di gesso, a sua volta praticata eredità millenaria. Per l’appassionato sono presenti in loco musei a cielo aperto con forni di cottura riqualificati – probabilmente in attesa di nuovo abbandono. Muovendoci ancora, percorrendo la strada che va scendendo verso Imola, lungo le serpentine di asfalto sempre in procinto di sprofondare nella sabbia dei calanchi una fugace apparizione si palesa all’improvviso: pare una chiesetta diroccata, come tante altre ne abbiamo viste nei dintorni di vetusti caseggiati anch’essi sperduti tra i colli. Appena nei pressi un solitario camposanto custodisce tra le sue povere mura gli avi silenti che lì abitarono.
 
Limbo.
 
 La chiesa, devastata dal tempo, è dedicata a un arcaico santo orientale, Mamete di Cesarea, patrono delle puerpere poiché lui stesso sfamato dal latte di cerve selvatiche – è facile immaginare il successo secolare di un culto del genere, in ambienti pastorali di questo tipo - Vivebat inter bestias Quo cive gaudent angeli… pare di sentire i sussurri dei morti poco lontani, gente di fede e di fatica, ora dimenticata, polvere di ossa fiduciose nella resurrezione che avviene in ogni momento intorno a noi, nella terra e nell’aria di questo anfratto di Appennino, nel meriggio di inizio primavera. 
 
Fine del viaggio.